LO STRETCHING

Il termine “stretching” proviene dall’inglese to stretch, che significa allungamento, stiramento, e rappresenta la metodica di allenamento che viene utilizzata per migliorare la flessibilità muscolare attraverso l’esecuzione di esercizi, semplici o complessi, di stiramento. Lo stretching è arrivato in Europa e in Italia attraverso la ginnastica aerobica giunte come sempre da oltreoceano.

Nell’ambito della preparazione fisica, la comparsa degli esercizi di stretching ha rappresentato un passo in avanti in quanto gli atleti hanno imparato a prestare più attenzione alle differenti sollecitazioni dei diversi gruppi muscolari e alla loro mobilità articolare. Per tanti anni la pratica dello stretching è stata consigliata e se n’è fatto un abuso e un uso indiscriminato, poiché si riteneva che portasse solo benefici. Ma in realtà, come tutti i mezzi di allenamento, ha diverse sfaccettature e non può essere usato in qualsiasi momento: bisogna tener conto ad esempio dell’obiettivo che si vuole raggiungere, del momento in cui viene proposto, del background motorio dell’atleta e dello sport specifico.
Per prima cosa cerchiamo di chiarire i concetti di mobilità articolare e flessibilità muscolo-articolare.

La mobilità articolare è la capacità di eseguire, nel rispetto dei limiti fisiologici imposti dalle articolazioni, dai muscoli e dalle strutture tendinee, tutti i movimenti con la massima ampiezza e naturalezza possibile, sia volontariamente che in presenza di forze esterne. La mobilità quindi non ha un significato generico, ma è specifica per una particolare articolazione o una serie di articolazioni, inoltre è specifica dell’azione svolta con l’articolazione stessa.
È considerata una capacità complessa in quanto dipende sia da fattori neurologici sia da fattori anatomici, per questo motivo non è compresa tra le capacità coordinative, nè tanto meno tra quelle condizionali, ma ha un ruolo a se stante. Si valuta misurando il ROM cioè il “range of motion” delle varie articolazioni.
La mobilità articolare dipende:

  • dalla struttura dell’articolazione;
  • dalle capacità elastiche di muscoli e tendini

Oltre alle caratteristiche morfologiche sopra indicate, ci sono alcuni fattori che influenzano positivamente o negativamente la mobilità articolare; essi sono:

  • la temperatura ambientale;
  • il grado di riscaldamento motorio raggiunto;
  • un eccessivo lavoro di sviluppo muscolare;
  • l’età e il sesso;
  • stati d’ansia e di stress;
  • il livello di affaticamento del muscolo (limita l’azione dei muscoli agonisti e antagonisti).

La mobilità articolare si distingue in:

  • mobilità articolare attiva: la massima escursione di movimento di un’articolazione che un atleta può raggiungere contrendo i muscoli agonisti e allo stesso tempo, rilassando i muscoli antagonisti.
  • mobilità articolare passiva: corrisponde alla massima escursione di movimento che un atleta può raggiungere in presenza di forze esterne (compagno o attrezzi) ed è basata sulla capacità di rilassamento e allungamento dei muscoli antagonisti.

Il tessuto connettivo è estensibile ma, se non viene regolarmente sollecitato con l’esercizio fisico, in breve tempo perde queste caratteristiche essenziali. La capacità dei muscoli di allungarsi durante il movimento consentito da un articolazione può essere definita come flessibilità muscolare e rappresenta una qualità che può essere migliorata con l’allenamento.
A sua volta la flessibilità muscolare può essere limitata alla capsula articolare, dall’attività della componente contrattile del muscolo, dal tessuto connettivo del muscolo stesso e dai suoi tendini, oltre che dalla cute. Unendo i due concetti possiamo quindi parlare di flessibilità muscolo – articolare.

LE DIVERSE TECNICHE DI STRETCHING

Gli esercizi di stretching sono praticati attraverso innumerevoli modalità, soprattutto dettate dal grado d’allenamento dell’atleta a cui vengono proposti, nonchè dalla specificità della disciplina sportiva praticata. E’ comunque possibile classificare lo stretching diverse categorie tecniche che prevedono modalità esecutive diverse tra loro.

Stretching statico

Le tecniche di stretching statico, talvolta erroneamente confuse con quelle di stretching passivo, sono basate sul raggiungimento ed il mantenimento per un certo lasso di tempo, della massima posizione di allungamento possibile da parte dell’atleta. Il metodo dello stretching prevede che si assuma lentamente una posizione di allenamento che dovrà essere successivamente mantenuta da un minimo di 10 ad un massimo di 60 secondi. Questo tipo di tecnica presenta alcuni vantaggi che sinteticamente possono essere elencati nei seguenti punti:

  • è sicura, di facile apprendimento e di semplice esecuzione;
  • richiede un dispendio energetico molto contenuto;
  • permette di superare la problematica inerente il riflesso da stiramento (recettori della tensione che proteggono il muscolo dal suo sviluppo eccessivo);
  • se praticata in modo sufficientemente intenso, può indurre un rilassamento muscolare riflesso indotto dall’azione degli OTG;
  • permette dei cambiamenti strutturali, in termini d’elongazione, di tipo semi-permanente.

Il principale svantaggio che lo stretching statico presenta, è la sua mancanza di specificità. In effetti la maggior parte delle discipline sportive contempla dei movimenti dinamici di tipo balistico, durante i quali l’UMT (unità muscolo tendinea) deve sopportare delle elongazioni violente e repentine.
Lo stretching statico, pertanto, si presenta come scarsamente specifico nei confronti di tali situazioni. Inoltre, occorre ricordare come il muscolo possegga due tipi recettori: i primi misurano sia la velocità, che la lunghezza dell’elongazione, mentre i secondi sono sensibili solamente ai cambiamenti di lunghezza, per questa ragione gli esercizi d’allungamento statico andrebbero accompagnati con quelli basati sull’allungamento dinamico.
Un’ulteriore problematica legata all’utilizzo dello stretching statico, è costituita dal suo possibile effetto negativo sulla produzione di forza muscolare, dimostrato già da diverse ricerche scientifiche. Le capacità contrattili del muscolo sottoposto ad un eccessivo carico d’allungamento, verrebbero infatti diminuite a causa di un cambiamento della capacità da parte del muscolo di assorbire e dissipare lo shock derivante da un carico esterno imposto, oltre che della sua capacità di stiffness ovvero la rigidità con la quale il sistema muscolo-tendineo reagisce al carico imposto.

Stretching passivo

Nello stretching passivo, l’atleta è completamente rilassato e non partecipa attivamente al raggiungimento dei diversi gradi del ROM (range of motion), che invece sono raggiunti grazie all’applicazione di forze esterne create manualmente, come nel caso d’aiuto da parte di un terapista o di un compagno, oppure meccanicamente, grazie ad una strumentazione specifica. Questo tipo di tecnica è normalmente utilizzata in ambito riabilitativo, soprattutto nel caso in cui l’estensibilità del muscolo sottoposto ad allungamento sia limitata dall’azione degli antagonisti e dal tessuto connettivo. Tra i vantaggi che l’allungamento passivo presenta possiamo elencare:

  • la sua efficacia nel caso in cui i muscoli preposti all’allungamento attivo, ossia la muscolatura agonista, risultino troppo deboli per poter svolgere detto compito;
  • si dimostra particolarmente efficace, quando altri tentativi, effettuati con differenti tecniche d’allungamento, hanno fallito nel tentativo di ridurre le tensioni muscolari presenti;
  • permette un allungamento che può andare al di là del ROM attivo;
  • aumento della tolleranza del dolore, con una diminuzione dell’input nervoso nei motoneuroni e una diminuzione del tono muscolare con una maggiore tolleranza allo stiramento.

L’aumento della mobilità articolare dopo un allenamento di allungamento intenso e durata adeguata sembra che debba essere attribuito all’interazione di meccanismi di adattamento diversi. Tra i possibili rischi dell’allungamento passivo, possiamo annoverare il rischio di lesione che può presentarsi nel caso in cui la differenza tra il range di flessibilità attiva e quello di flessibilità passiva sia considerevole. Inoltre, al contrario di quanto accade con i metodi attivi, non si rafforzano contemporaneamente gli antagonisti. Dal momento che il livello di flessibilità passiva non risulta correlato con il livello di attività sportiva, quest’ultima deve necessariamente essere supportata da un parallelo programma di lavoro costituito da esercizi di flessibilità attiva.

Stretching balistico

Lo stretching balistico prevede una tecnica esecutiva di tipo ritmico e “rimbalzante”, il cui scopo è quello di forzare il movimento stesso verso i limiti massimi del ROM. Questa metodologia di allungamento è la più criticata, vista la sua potenziale pericolosità in termini di possibili danni muscolari che può provocare. I principali svantaggi di questo tipo di pratica sono:

  • la limitatezza del tempo d’allungamento, non permette un adeguato adattamento dei tessuti nei confronti dell’elongazione stessa;
  • la repentinità dell’allungamento porta alla manifestazione del riflesso miotatico da stiramento, che a sua volta comporta un’obiettiva difficoltà nell’ottenere una soddisfacente elongazione del tessuto connettivale.

Soprattutto per questi motivi, di norma si preferisce adottare uno stretching dinamico piuttosto che di tipo balistico. La grande differenza tra queste due metodologie di lavoro è costituita dal fatto che nello stretching dinamico, il movimento non prevede un’esecuzione “rimbalzante”, e soprattutto nella fase finale dell’esercizio, la velocità esecutiva globale è molto più controllata.

Un’ulteriore differenza tra stretching dinamico e stretching balistico, consiste nel fatto che, nel primo caso il movimento è eseguito in modo controllato sino ai limiti del proprio ROM, mentre nel secondo si cerca di forzare il movimento stesso oltre il ROM naturale. Tuttavia bisogna sottolineare, che per ottenere il massimo vantaggio da un programma rivolto alla flessibilità, occorre che gli esercizi proposti siano velocità-specifici, è necessario quindi che la velocità d’allungamento adottata nel programma di stretching sia la più simile possibile a quella che si riscontra durante l’esecuzione dei gesti tecnici specifici nell’ambito della disciplina praticata. Lo stretching balistico quindi, nonostante la sua potenziale pericolosità, presenterebbe una maggiore specificità rispetto a quello dinamico.

Stretching attivo

Lo stretching attivo, è basato sull’utilizzo di tecniche che comportano il raggiungimento, ed il conseguente mantenimento, della massima posizione di allungamento, conseguita unicamente grazie ad una contrazione muscolare attiva. Le tecniche di stretching attivo, quindi escludono qualsiasi intervento esterno che assista o favorisca il raggiungimento e/o il mantenimento della posizione desiderata. Inoltre lo stretching attivo può essere ulteriormente suddiviso in altre due categorie, la prima denominata “totalmente attiva” e la seconda “resistiva”.

Nella prima categoria ritroviamo esclusivamente tecniche effettuate senza l’aggiunta d’alcuna resistenza, mentre la seconda prevede l’applicazione di una resistenza esterna nel corso dell’esecuzione dell’esercizio d’allungamento. Entrambi i tipi di tecniche sono in grado d’aumentare sia la flessibilità, che la forza della muscolatura agonista. È importante ricordare che, durante l’esecuzione di un’esercitazione di stretching attivo, la tensione della muscolatura agonista contribuisce al rilassamento della muscolatura antagonista (ossia quella sottoposta ad allungamento), grazie al fenomeno dell’inibizione reciproca. Lo stretching attivo si dimostra particolarmente interessante soprattutto per il fatto che la flessibilità dinamica in tal modo sviluppata, dimostra un’attinenza molto maggiore nei confronti del risultato sportivo specifico, rispetto alla flessibilità di tipo passivo.

Stretching isometrico

Lo stretching isometrico è una tecnica che comporta la contrazione isometrica della muscolatura sottoposta ad allungamento, più specificatamente questo tipo di allungamento si compone di tre parti distinte:

  • inizialmente si assume la posizione di stretching passivo desiderata;
  • si effettua una contrazione isometrica contro una resistenza esterna inamovibile (generalmente un compagno, oppure il pavimento od una parete) per un periodo di tempo normalmente compreso tra i 7 ed i 15 secondi;
  • infine si rilassa il muscolo contratto in precedenza per un ulteriore periodo della durata di perlomeno 20”.

Lo stretching isometrico è considerato come una delle migliori ed efficaci tecniche rivolte allo sviluppo della flessibilità statico-passiva e si dimostra maggiormente efficace dello stretching attivo o passivo utilizzati singolarmente. Inoltre questo tipo di tecnica contribuirebbe notevolmente alla diminuzione della sensazione dolorosa associata all’allungamento. Tuttavia, dato che il forte allungamento muscolo-tendineo che la contrazione isometrica produce, può costituire un fattore di rischio per l’integrità tendinea e connettivale, ed è quindi sconsigliabile a bambini e adolescenti.

PNF stretching: Facilitazione Propriocettiva Neuromuscolare.

Il PNF stretching, è considerato come la miglior tecnica grazie alla quale è possibile massimizzare la flessibilità statico-passiva. In realtà il PNF, costituisce una combinazione tra lo stretching passivo e quello isometrico. Il principio di base di queste tecniche si basa sull’allungamento passivo del gruppo muscolare considerato, che viene in seguito contratto in modo isometrico contro una resistenza inamovibile ed in seguito nuovamente allungato passivamente grazie all’intervento di un assistente, raggiungendo in tal modo un ROM accresciuto. Le tecniche di PNF stretching maggiormente utilizzate sono:

  • la tecnica di contrazione rilassamento (CR): nella tecnica di CR, anche denominata contract-relax method, si procede in questo modo:
    • il muscolo antagonista viene prima allungato passivamente dall’operatore;
    • in seguito viene richiesto all’atleta una contrazione isometrica della muscolatura allungata contro la resistenza fornita dall’operatore della durata di circa 7-15 secondi;
    • il muscolo viene brevemente rilassato per 2-3 secondi;
    • infine nuovamente allungato passivamente per circa 10-15 secondi.

    Quanto maggiore è la contrazione precedente del muscolo che deve essere allungato, tanto maggiore sarà il suo rilassamento e tanto più efficace sarà il suo successivo lavoro di allungamento. La pausa che occorre rispettare tra due tecniche di CR consecutive è di circa 20 secondi. L’assunto fisiologico su cui si basa la tecnica di CR, è costituito dal fatto che la contrazione isometrica dell’antagonista è in grado di promuovere, grazie all’azione inibitrice degli OTG, una successiva fase di rilassamento durante la quale è possibile incrementare passivamente il ROM.

  • la tecnica contrazione-rilassamento-contrazione (CRAC): questa tecnica, conosciuta anche come hold-relax-contract oppure contract-relax-antagonist-contract, comporta:
    • una prima fase di allungamento passivo;
    • due contrazioni isometriche, la prima dell’antagonista e la seconda a carico dell’agonista;
    • un’ultima fase di allungamento passivo.

    Il razionale scientifico su cui si basa la tecnica CRAC è costituito sempre dal principio neurofisiologico dell’inibizione reciproca, secondo il quale la contrazione dell’agonista comporterebbe un ulteriore rilassamento dell’antagonista (ossia del muscolo sottoposto ad allungamento). La tecnica CRAC è in grado, secondo alcuni Autori, di garantire il maggior guadagno in termini d’incremento del ROM, anche se occorre non sottovalutare la sensazione di dolore che è possibile indurre nel paziente.


STRETCHING: COSA DICONO LE RICERCHE

Sulla base delle conoscenze attuali, in base alle numerose ricerche che esistono sullo stretching e sulle sue diverse applicazioni, possiamo affermare alcune considerazioni importanti che riguardano questa pratica. Cerchiamo quindi di “sfatare alcuni miti” su questa pratica diffusa e forse fin troppo abusata da parte di atleti e allenatori.

Stretching e riscaldamento

Lo stretching non è il miglior mezzo sul quale basare la fase di riscaldamanto pre-gara e/o pre-allenamento. Questo non significa assolutamente che non può trovare di diritto una posizione in quest’ambito, ma che al contrario debba essere integrato in un piano di riscaldamento basato essenzialmente su esercitazioni di tipo dinamico, che si rivelano senz’altro più adatte ad ottenere un idoneo innalzamento della temperatura muscolare sino al raggiungimento dei suoi livelli ideali.

La temperatura ideale alla quale il muscolo ottimizza le proprie caratteristiche visco-elastiche, è all’incirca di 39° C, a questa temperatura diminuisce infatti la viscosità dei tessuti, migliora l’elasticità dei tendini, si aumenta la velocità di conduzione nervosa e si modifica positivamente l’attività enzimatica, inoltre l’innalzamento della temperatura muscolare costituisce un’efficace misura preventiva nei confronti degli infortuni riducendo i rischi di stiramento o strappo muscolare. Lo stretching è largamente utilizzato nell’ambito del riscaldamento tuttavia, secondo alcuni Autori (Alter, 1996; Wiemann e klee, 2000) la sua possibile efficacia nel provocare un innalzamento della temperatura del muscolo, sarebbe molto discutibile, tanto che alcuni studi dimostrerebbero addirittura un suo effetto negativo in questo senso. In effetti, occorre ricordare che il tipo d’azione muscolare che ritroviamo nel corso dello stretching è praticamente sovrapponibile a ciò che avviene in una contrazione eccentrica. Dal momento che nel corso di una contrazione di tipo eccentrico, la vascolarizzazione muscolare viene interrotta ed il lavoro svolto diviene in tal modo di tipo anaerobico, determinando un aumento dell’acidosi, oltre ad una marcata anossia cellulare, è facilmente comprensibile come lo stretching non possa essere considerato come il mezzo d’elezione nell’ambito del riscaldamento. Utilizzare lo stretching come mezzo esclusivo sul quale basare il riscaldamento pre-gara e/o pre-allenamento, sembrerebbe quindi sicuramente insufficiente e scorretto. Tuttavia, integrare razionalmente lo stretching in uno schema di riscaldamento basato soprattutto su altri tipi d’esercitazione, maggiormente efficaci nel far aumentare la temperatura interna del muscolo, come un’idonea alternanza di contrazioni e rilassamenti, è sicuramente la scelta più corretta. Come ricorda Shrier (1999), non dobbiamo mai dimenticarci delle peculiarità della persona: molti atleti necessitano di u solo esercizio di allungamento per muscolo, mentre altri richiedono più esercizi e più tempo da dedicare allo stretching.

Stretching e prevenzione dei danni muscolari

Non è razionale pensare che sia sufficiente una pratica dello stretching per poter prevenire in forma sistematica gli incidenti di natura muscolare. Data la multifattorialità degli infortuni, non è giustificato poter pensare ad una completa inutilità dello stretching in questo campo. La scelta più obiettiva e corretta sembrerebbe considerare lo stretching come uno dei molteplici mezzi di prevenzione da adottare nell’ambito di una strategia preventiva di tipo integrato e sinergico.

Una ricerca di Simic et Al. Del 2013 afferma che i risultati dimostrano chiaramente che lo Stretching Statico prima dell’esercizio ha un effetto negativo sulla forza muscolare massima e sulle prestazioni muscolari, mentre i corrispondenti effetti acuti sulla potenza muscolare rimangono ancora poco chiari. Questi risultati sono universali, indipendentemente dal soggetto di età, genere, o lo stato di formazione. Dato il potenziale effetto positivo dello Stretching Statico sulla riduzione di incidenza di strappi muscolari, ulteriori studi dovrebbero esaminare gli effetti acuti dello SS di durata più breve (ad esempio, 15-30 s per gruppo muscolare), incorporato in un riscaldamento di routine. Il meccanismo maggiormente correlato al possibile danneggiamento della fibra muscolare, risulterebbe essere la contrazione di tipo eccentrico. La ragione della maggior incidenza traumatica a livello muscolare, riscontrabile durante una situazione di contrazione eccentrica, è con ogni probabilità imputabile alla maggior produzione di forza registrabile nel corso di quest’ultima, rispetto a quanto non avvenga nella modalità di attivazione di tipo concentrico od isometrico. Infatti durante una contrazione eccentrica, la forza espressa dal distretto muscolare risulta essere di ben tre volte maggiore di quella espressa, alla stessa velocità, durante una contrazione concentrica. Inoltre, durante una contrazione eccentrica, risulta maggiore anche la forza prodotta dagli elementi passivi del tessuto connettivo del muscolo sottoposto ad allungamento. Soprattutto in riferimento a questo dato, occorre sottolineare come anche il fenomeno puramente meccanico dell’elongazione, possa giocare un ruolo importante nell’insorgenza dell’evento traumatico, visto che quest’ultimo può verificarsi, sia in un muscolo che si presenti attivo durante la fase di stiramento, come in un distretto muscolare che sia passivo durante la fase di elongazione. Durante la contrazione eccentrica il muscolo è in effetti sottoposto ad un fenomeno di “overstretching” che, in quanto tale, può determinare l’insorgenza di lesioni a livello dell’inserzione tendinea, della giunzione muscolo-tendinea, oppure a livello di una zona muscolare resa maggiormente fragile da un deficit di vascolarizzazione. E’ interessante notare come siano i muscoli biarticolari quelli maggiormente esposti ad insulti traumatici, proprio per il fatto di dover controllare, attraverso la contrazione eccentrica, il range articolare di due o più articolazioni. Anche la diversa tipologia delle fibre muscolari presenta una differente incidenza di evento traumatico. Le fibre di tipo FT, sono infatti maggiormente esposte a danni strutturali rispetto alle ST, probabilmente a causa della loro maggior capacità contrattile, che si traduce in un’accresciuta produzione di forza, e di velocità di contrazione, rispetto alle fibre di tipo ST. Inoltre i muscoli che presentano un’alta percentuale di FT, sono generalmente più superficiali e normalmente interessano due o più articolazioni, fattori entrambi predisponenti al danno strutturale. Inoltre è interessante notare come l’insulto traumatico sia prevalentemente localizzato a livello della giunzione muscolo-tendinea, a testimonianza del fatto che in questa zona, si verifichi il maggior stress meccanico. Per tutta questa serie di motivi lo stretching è stato sempre considerato come la miglior forma di prevenzione nei confronti dei danni muscolari. Tuttavia recentemente numerosi Autori, a seguito di protocolli di studio specifici, non hanno rilevato alcun beneficio, derivante da una pratica assidua e regolare dello stretching, nei riguardi della prevenzione dei danni all’UMT. Una possibile spiegazione di questa mancanza di correlazione tra capacità d’elongazione del muscolo e diminuzione degli incidenti muscolari, potrebbe risiedere nel fatto che in effetti lo stretching provoca una sorta di effetto antalgico nei confronti dell’allungamento stesso. Shrier e Pope (2000), hanno mostrato che lo stretching effettuato prima dell’esercizio non ha alcun effetto nella prevenzione dei traumi, sia in acuto che in cronico. Altre ricerche (Hartig, 1999, Hilyer, 1990) non sono arrivate a stabilire un livello minimo di stretching, in termini di tempo al giorno, affinchè posso produrre risultati significativi. La pratica dello stretching indurrebbe quindi una diminuzione della sensazione dolorosa indotta dall’allungamento, data da un aumento della soglia dei nocirecettori, permettendo in tal modo all’atleta di sopportare allungamenti muscolari di maggiore entità, situazione che potrebbe anche paradossalmente aumentare il rischio di traumatismi a livello muscolare. La considerazione finale sull’incidenza dello stretching sul rischio d’incidenti a livello muscolo-tendineo, è che comunque l’eziologia di tali eventi traumatici sia talmente multifattoriale da rendere improbabile l’ipotesi che in questo campo la pratica dello stretching possa costituire una sorta di rimedio universale, ma è molto più plausibile ed obiettivo considerare lo stretching come uno dei mezzi utilizzabili nell’ambito di un piano rivolto alla prevenzione degli incidenti muscolari.

Stretching e prestazione

Sono molti gli studi ritrovabili in bibliografia che documentano (Wiemann e Klee, 2000; Fowles, 2000; Kekonen, 2001) in seguito ad una precedente seduta di stretching, una diminuzione della prestazione di sprint, una perdita della capacità di forza massimale e di resistenza alla forza, oppure di capacità di salto, e quindi della possibilità da parte dell’UMT di accumulare energia elastica nel corso della fase eccentrica del movimento e di restituirla, sotto forma di lavoro meccanico, durante la fase concentrica dello stesso.

Una recente ricerca di Kay, A. D., and A. J. Blazevich del 2012, ha affermato che lo stretching statico per un totale di 45 sec può essere utilizzato come routine senza il rischio di una diminuzione significativa nella performance delle attività forza o di velocità. Per tempi di allungamento più lunghi (ad esempio, 60 s) ci sono maggiori probabilità di causare una piccola o moderata riduzione delle prestazioni. Questa perdita della capacità prestativa in seguito ad un seduta di stretching, trova sostanzialmente tre tipi di spiegazione. In primo luogo, occorre sempre considerare il fatto che l’allungamento è, da un punto di vista biomeccanico, assimilabile ad una contrazione di tipo eccentrico, la cui intensità può raggiungere livelli di tipo massimale. Per questo motivo, facendo precedere alla prestazione, una seduta di stretching particolarmente intensa, si corre sia il rischio di produrre dei danni alla struttura muscolare. Un secondo fattore che potrebbe spiegare il fenomeno, è costituito dal fatto che un’eccessiva sollecitazione in allungamento di alcuni gruppi muscolari a discapito di altri, potrebbe costituire un fattore di perturbazione della coordinazione sia tra gruppi muscolari sinergici, che tra agonisti ed antagonisti. Un ultimo fattore è costituito dal fatto che il tendine, nel corso di un allungamento di una certa intensità e durata, attraversa una fase di riorganizzazione delle proprie fibre di collagene che vengono riorientate meno obliquamente di quanto non fossero nella precedente fase di riposo. Questo fenomeno va sotto il nome di “creeping” e comporta una diminuzione delle capacità del tendine, nel corso di un ciclo stiramento-accorciamento, di poter accumulare e restituire energia elastica. Dal momento che il tendine è il maggior interprete del fenomeno di risposta elastica, quest’ultimo fattore potrebbe assumere un ruolo determinante nella diminuzione delle capacità di salto registrabile in seguito ad una precedente intensa seduta di stretching.

Stretching e prevenzione dei DOMS: delayed onset muscle soreness

L’utilizzo dello stretching nella prevenzione del fenomeno del delayed onset muscle soreness apparirebbe ingiustificato e sostanzialmente inutile.

Il fenomeno del “delayed onset muscle soreness”, successivo ad un allenamento di tipo eccentrico ha un origine metabolica e meccanica ben precisa, è quindi molto probabile che la pratica dello stretching non abbia un’influenza di tipo positivo sul fenomeno in questione. Anzi, alcuni Autori sostengono che una seduta di stretching particolarmente intensa provochi gli stessi danni muscolari, e quindi la stessa sensazione dolorosa, di una seduta di forza eccentrica. Alcuni lavori testimoniano di come neppure una seduta di stretching effettuata prima di una seduta d’allenamento eccentrico, oppure durante, o dopo la stessa, sia in grado di diminuire la sensazione dolorosa percepita dagli atleti nell’ambito delle 24-48 ore susseguenti alla sessione di lavoro. Freiwald, 1999; Schober, 1990; affermano che lo stretching statico non rappresenta il miglior modo per facilitare il drenaggio del sangue, anzi, la compressione dei capillari interrompe la vascolarizzazione.